Dalla cripta dei Borbone di Francia
ad Alessandria d’Egitto (tra Italia e Slovenia)
di Romeo Pignat
E se via della Cappella a Gorizia diventasse famosa come via Toledo a Napoli o via Garibaldi a Genova? C’è poco da scherzare su un’ipotesi di questo tipo, se cominciamo a prendere in seria considerazione il valore simbolico dei luoghi, la loro forza di connessione, il loro potente immaginario.
Via della Cappella è una stradina in salita che s’imbocca da via del Rafut, a mezzo chilometro dalla centrale piazza della Vittoria. È una deviazione che passa quasi inosservata, partecipando di quei mezzi toni che ammantano la discrezione di Gorizia. È un vicolo sussurrato che attraversa in punta di piedi la storia. Ma quale storia! Una storia così intensa, stratificata, a volte così surreale che a svolgerla davanti agli occhi della ragione sembra quasi onirica, pensando soprattutto a quel fatidico 1947 che calò una linea bianca, solida come un muro, a dividere le vite di Gorizia. E la linea bianca passava proprio da queste parti, verso il culminare dell’erta di via della Cappella, che qui si fa sentiero. Le sobrie case del primo Novecento sfumano in un boschetto e il confine tra Italia e Slovenia aleggia, invisibile, tra le fronde. La salita si risolve in uno slargo di ulivi e di luce che domina Gorizia e il suo Castello: tuttavia – senza saperlo, senza aver compreso la potenza del transito – siamo già a Nova Gorica. Lo spirito del luogo è lo stesso che ci accompagna da qualche minuto e da poche centinaia di metri, dal punto di partenza. La strada, però, ha cambiato nazionalità e anche nome: via della Cappella è diventata Streliška pot.
Il traduttore automatico mi viene in soccorso: “Streliška pot” significa “via del poligono di tiro”. L’Italia si è trasformata in Slovenia, il nome sacro in nome militare, che tuttavia non profana il quieto senso di spiritualità che promana dal luogo raggiunto: il Samostan Kostanjevica, il convento francescano della Castagnavizza, che nelle due lingue conserva il ricordo di un “posto di castagni” e, in fondo, è come il posto delle fragole dell’innocenza indivisa di Gorizia.
Fondato dai Carmelitani nel 1623 e riaperto, dopo la loro cacciata, dai Francescani nel 1811, questo edificio dal sobrio candore è scrigno di emozionanti sorprese: l’elegante chiesa barocca. L’antico roseto, che accoglie una tra le più ricche collezioni di rose Bourbon al mondo. La preziosa biblioteca intitolata a padre Stanislav Škrabec (1844-1918), il più noto linguista sloveno del XIX secolo, che qui visse per quarantadue anni: al suo interno si trovano circa 15.000 libri, un patrimonio librario che risale al Rinascimento e comprende preziosi incunaboli, i primi libri stampati con caratteri mobili.
Ma il luogo più evocativo del convento è sicuramente la cripta cui si accede da uno stretto corridoio, inquadrato da due ghirlande funebri. È la “piccola Saint-Denis” dei Borbone di Francia, sei dei quali furono qui sepolti dal 1836 al 1886. La loro storia goriziana cominciò nel 1836, quando con corte al seguito giunse esule a Gorizia Carlo X, ultimo re di Francia del ramo principale dei Borbone. Fu ospitato a palazzo Coronini Cronberg, dove morì solo un mese dopo, braccato da quel colera che aveva cercato invano di sfuggire lungo le strade d’Europa. Carlo X riposa nella cripta accanto al figlio Luigi XIX, duca di Angoulême; alla nuora Maria Teresa Carlotta, duchessa di Angoulême; a Maria Teresa Beatrice Gaetana, arciduchessa d’Austria-Este; a Enrico V, conte di Chambord; e a Luisa Maria Teresa, duchessa di Parma. Louis Jean Casimir, duca di Blacas e marchese di Aulps, è invece più modestamente accomodato in una nicchia lungo il corridoio di accesso.
Nonostante il decaduto re Carlo X sia il protagonista istituzionale più citato di questa storia goriziana, è forse Maria Teresa Carlotta la figura più romanzesca e affascinante: è lei la celeberrima Madame Royale, nipote dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria e figlia di Maria Antonietta e Luigi XVI. Fu lei la bambina prigioniera nella Torre del Tempio a Parigi, orfana dei due regali genitori mandati alla ghigliottina durante la Rivoluzione francese. Una storia di resistenza e di sofferenza che fece di lei una “Antigone”, strenua sostenitrice della Restaurazione ed eroina dei monarchici francesi. Come ebbe a definirla Napoleone Bonaparte, constatando la coraggiosa opposizione di Maria Teresa Carlotta al suo regime durante i Cento giorni, “Madame Royale è l’unico uomo della famiglia dei Borboni.” Intorno alla sua persona e alla sua vicenda fiorirono dicerie di opposto tenore e persino tenebrose leggende, compresa quella di uno scambio d’identità, per cui la vera Maria Teresa Carlotta non sarebbe stata la donna giunta e poi sepolta a Gorizia, ma una nobile misteriosa che sarebbe vissuta e morta in un castello della Germania: la Comtesse des Ténèbres, per la (sospetta) abitudine di celare pubblicamente il suo volto con una scura veletta. Recenti indagini sul DNA della Comtesse des Ténèbres hanno fatto cadere questa ipotesi, ridando a Nova Gorica-Gorizia quel che è di Nova Gorica-Gorizia.
In un periodo in cui tutti parlano di “narrazione” e di parità di diritti, mi chiedo perché il marketing della storia goriziana continui a insistere su un testimonial tutto sommato un po’ spento come Carlo X, e non metta in giusta luce Maria Teresa Carlotta, con il suo temperamento e il suo potere di fascinazione? Sarà forse il solito understatement conservatore di Gorizia…
Dopo questa overdose di sepolture borboniche tra Italia e Slovenia, ci si rituffa ai piedi del colle del Rafut, prima lambendo una collina terrazzata fuori del tempo e della città, dove mucche e capre pascolano ignare della storia, poi attraversando un quartiere di linde villette con giardini. Gorizia è così: misteriosamente clamorosa e, insieme, pigramente domestica…
L’ultima meta della nostra passeggiata, in tutto tre chilometri, è villa Lasciac. Ma decidiamo una breve deviazione sulla destra, attraversando di nuovo il confine tra Slovenia e Italia, dov’è il valico oggi aperto del Rafut, accanto alla ferrovia a binario unico della Transalpina. Da una parte e dall’altra del valico, l’uno in Slovenia e l’altro in Italia, due ex caselli confinari ospitano altrettanti piccoli musei che raccontano i tempi quando la linea bianca attraversava anche le mucche al pascolo: il primo in Slovenia è la Collezione museale Pristava, dedicata alla mostra “Na šverc! Il contrabbando nel goriziano dopo la Seconda guerra mondiale”. La parola “šverc” deriva dal tedesco “schwarz”, un riferimento a quel “nero”, a quel commercio illegale tra i due Stati molto praticato, e con grandi rischi, negli anni inclementi della guerra fredda.
Il secondo a pochi passi, in Italia, è la Mostra multimediale “Lasciapassare/Prepustnica” – Storia e memorie di una città di confine”. Il titolo ci riporta ai tempi della prepustnica, il lasciapassare riservato ai locali, che diventava necessario anche soltanto per coltivare l’orto rimasto al di là del confine: la prova della violenza dell’assurdo patita da questa città.
Conclusa la divagazione transfrontaliera, facciamo dietrofront, ripassiamo il confine e ritorniamo in Slovenia per rimetterci in Kostanjeviška cesta. Dopo circa trecento metri, all’inizio della salita, ci troviamo davanti all’ingresso in stile moresco di villa Lasciac: uno dei posti più eccentrici di una città già molto eccentrica come Gorizia-Nova Gorica.
Il suo nome deriva dall’architetto e già proprietario Antonio Lasciac (1846-1956) – o Anton Laščak in una terra dove nomi e cognomi cambiavano con i venti della storia – che qui la costruì nel primo Novecento quando il colle del Rafut faceva parte della città di Gorizia e Gorizia faceva parte dell’Impero austro-ungarico. Il destino e la gloria di Antonio Lasciac sono profondamente legati all’Egitto, dove fece fortuna come professionista, diventando architetto di corte per il khedivè Abbas Hilmi II e rappresentante di punta dell’architettura neo-islamica, realizzando molte opere tra Il Cairo e Alessandria d’Egitto.
La villa, immersa in un magnifico parco mediterraneo che beneficia del clima mite della “Nizza austriaca”, è una sintesi del suo stile, delle sue esperienze, delle sue aspirazioni. Ma è anche un monumento di straordinario valore storico e simbolico che ci ricorda il profondo legame plurimillenario del Goriziano con l’Egitto, risalente ai tempi dei commerci e degli scambi culturali di Aquileia con Alessandria, da cui la città romana sul Natissa ereditò il Cristianesimo. Per ragioni misteriose questo filo non si è mai spezzato attraverso i secoli, rafforzandosi in particolare negli anni della costruzione del Canale di Suez, che vide tra i principali artefici il barone Pasquale Revoltella, imprenditore e finanziere triestino di origine veneziana. Lo seguirono in Egitto molti progettisti, professionisti e costruttori giuliani. In quel periodo di grandi movimenti tra il Litorale adriatico e il nord Africa, perfino il ghiaccio estratto dalla grotta Paradana, nella Selva di Trnovo che domina la Valle del Vipacco, veniva trasportato fino a Gorizia e Trieste e da qui imbarcato verso l’Egitto, dove era usato per tenere fresche le bibite e le vivande.
Tra tutte queste storie giuliane-egiziane una è particolarmente toccante e, ancora una volta, ha le donne come protagoniste: è quella delle “alexandrinke”, giovani slovene dell’area di Prvačina che dal secondo Ottocento emigrarono in massa ad Alessandria, a servizio di ricche famiglie triestine, goriziane e mitteleuropee lì stabilitesi per i lavori del Canale di Suez. Crebbe così una comunità slovena ad Alessandria d’Egitto che negli anni Trenta contava circa 4500 emigrati. Oggi la Hiša Aleksandrink-Museo delle Aleksandrinke a Prvačina, ci restituisce commoventi testimonianze di questa vicenda che ha avuto un grande peso anche per la demografia di questo territorio.
Risaliamo l’erta a occidente del vasto parco, fino al cancello d’uscita. Scegliendo di proseguire lungo la stradina a destra potremmo sprofondare nella fiaba di luci e ombre dei 380 ettari del Parco di Panovec-Panovizza. Ma le emozioni, per oggi, ci bastano: è ora di mettere ordine a questo groviglio di connessioni, a queste continue sinapsi spazio-temporali che in tre chilometri ci hanno spostato da Italia a Slovenia, da Francia a Egitto…
Puntiamo verso sinistra, nel rassicurante verde amniotico di un sonnolento pomeriggio, per ritornare al convento della Castagnavizza, allo Streliška pot (ve la ricordate la “via del poligono di tiro”?) e ridiscendere via della Cappella.
E se via della Cappella diventasse famosa proprio come via Toledo a Napoli o via Garibaldi a Genova? O, ancora di più, come la porta dell’armadio che dà accesso al mondo segreto di Narnia? Pensandoci bene, forse è meglio di no.