di Romeo Pignat
Per molti anni ho snobbato Gorizia. Per molti di più ho snobbato Nova Gorica, pur frequentando appassionatamente la Slovenia, la Croazia e ancor prima la Jugoslavia.
Ad allontanarmi dalla piccola città sul confine, il pregiudizio sulla sua artificialità, legato non soltanto alla sua fondazione come città dell’avvenire socialista, ma anche al suo destino di piccola Las Vegas, un’enclave nella Repubblica Federale di Jugoslavia dove i “capitalisti” friulani, triestini, magari trevisani, venivano (e continuano a venire) a giocare al casinò nei week-end, cogliendo l’occasione per fare il pieno di benzina e rifornirsi a buon prezzo di ottima carne nelle macellerie appena oltre le sbarre doganali.
Il pregiudizio mi faceva vedere Nova Gorica solo come una triste e paradossale città dell’est socialista, adattatasi funzionalmente e un po’ furbescamente ai vicini spendaccioni.
Il pregiudizio – lo sappiamo molto bene nelle terre di confine – è una nebbia o un narcotico che può fare danni e sicuramente altera la percezione e allontana lo sguardo dalla visione dell’umanità, della vita e anche delle individualità che palpitano sotto la superficie dei luoghi comuni.
Certo, inutile negarlo, il passaggio da Gorizia a Nova Gorica può essere “scioccante” e straniante: una drastica soluzione di continuità. Dall’ovattata, intima e un po’ decadente atmosfera fin de siècle (XIX secolo) di Gorizia, si è catapultati nella squadrata e pubblica geometria socialista di Nova Gorica.
Nessun passaggio di confine tra Italia e Slovenia è così netto, come se non tenesse conto di quei dieci secoli durante i quali questo territorio è stato indiviso. Il transito alpino da Fusine in val Romana a Rateče è quasi impercettibile, così come quello carsico da San Dorligo della Valle a Osp-Ospo o quello adriatico da Muggia ad Ankaran-Ancarano. Da Pulfero a Kobarid-Caporetto, nonostante la contiguità linguistica, si avverte la discontinuità culturale tra il mondo plasmato dal Patriarcato di Aquileia e dalla Serenissima e quello forgiato dall’Austria-Ungheria. Ma il passaggio da Gorizia a Nova Gorica, soprattutto proseguendo da via San Gabriele lungo l’Erjavčeva ulica, ti proietta in pochi metri da una strana città della Mitteleuropa italiana (o dell’Italia mitteleuropea), a una sorta di quartiere di Belgrado finito per ragioni geopolitiche ai piedi del Carso e dell’Isonzo, anzi della Soča come si dice da queste parti. Eppure, accantonato il pregiudizio e lasciata l’automobile in uno dei tanti parcheggi gratuiti che offre questa città verdissima, scopri che Nova Gorica comincia dove finisce la sua apparenza di città manifesto delle ideologie jugoslave del secondo dopoguerra.
Il parcheggio al limite del Parco Borov Gozdiček ti offre la possibilità di arrivare subito in centro attraverso questo polmone verde e palustre popolato di rane, anatre, bambini che giocano, adulti che leggono, conversano o fanno picnic, vivendo il rapporto con la propria città e i suoi spazi aperti con una naturalezza che non appartiene alla mentalità italiana. I popoli slavi – e gli Sloveni non fanno eccezione – sembrano portare con sé la fisicità di un passato nomade, più orizzontale, meno strutturato e gerarchico di quello che ha innervato la nostra civiltà latina. Dalla spiaggia di Buljarica in Montenegro, dove il turbo-folk si mescola con il fragore delle onde, al Soča Fun Park di Solcan-Salcano alle porte di Nova Gorica, sembra che la comune parola d’ordine sia “carpe diem”: nel senso autentico di godersi il sole, il vento, lo scorrere dell’acqua dell’Isonzo, senza badare al glamour, alle comodità, all’anagrafe e alle classi sociali. “Tutti fuori, all’aria aperta!”. Non è un caso che trg Edvarda Kardelja, la piazza principale di Nova Gorica dove s’incrociano i due principali assi viari della città, sia un travnik, un grande prato verde, come lo era piazza Grande di Gorizia, prima di assumere la sua fisionomia barocca con l’arrivo dei Gesuiti e ancor prima di diventare piazza della Vittoria. La immagino come luogo di commerci, di bestiame, di “street food” ante litteram.
Intanto, in questo sabato mattina, bambini vocianti accompagnati dalle mamme percorrono il portico del teatro nazionale Sloveno, con la sua robusta struttura di mattoni rossi, per andare probabimente ad assistere a uno spettacolo.
Il verde primaverile ammorbidisce l’imponenza retorica del palazzo comunale che domina trg Edvarda Kardelja con le gigantesche statue celebrative della resistenza e della rivoluzione socialista, ma oggi anche con gli stendardi verde Isonzo che ci ricordano che siamo soltanto a un anno da GO! 2025, da Nova Gorica-Gorizia Capitale europea della cultura. Un vero e proprio miracolo in questi tempi disgregati.
Da trg Edvarda Kardelja a Bevkov trg, prima area pedonale della Jugoslavia, sono solo quattro passi, che segnano il passaggio da uno spazio urbanistico ancorato alla rigorosa Jugoslavia socialista, a un’area urbana meno severa e più proiettata verso il compromesso con il mondo capitalista al di là della linea bianca. Non è un caso: ispirata a Linjnbaan street, prima strada pedonale d’Europa realizzata a Rotterdam nel 1953, Bevkov trg fu progettata da Marjan Vrtovec nel 1966, proprio l’anno in cui si svolse il I Incontro Culturale Mitteleuropeo di Gorizia e cominciava ad avviarsi quel dialogo tra le due città divise, che ci ha portato ai nostri giorni, con la possibilità di un evento epocale come GO! 2025. L’atmosfera di Bevkov trg – a ribadire lo spirito di Nova Gorica – è rilassante, informale. La strada è attraversata da famiglie con bambini a piedi o in bicicletta, da giovani con i monopattini. I più piccoli non sono mai sorvegliati in modo assillante. Nei bar ragazzi ed anziani sono a fianco a fianco. Si comincia a vedere anche qualche turista. L’aria sprizza energia positiva. Si ha l’impressione che qui lo struscio non abbia implicazioni modaiole od ostentative. Sia solo il piacere di stare fuori, di incontrarsi di nuovo e godersi insieme la giornata e il sole che la riscalda.
Ci fermiamo in un panificio per un burek, consumato con una birra locale a un prezzo onesto. Il turco-balcanico burek (o börek) preparato a regola d’arte, ci offre il sapore proustiano di un ritorno alla Jugoslavia. Per un attimo ci sembra di essere a Novi Beograd o, comunque, a centinaia di chilometri da Gorizia. È del resto quasi impossibile attraversare e comprendere questa città senza tenere conto delle sue origini straordinarie, della sua fondazione dal nulla che portò qui, nell’alpina e mitteleuropea Slovenia, in uno sforzo di costruzione collettiva delle case popolari, centinaia di uomini, donne e soprattutto giovani delle Brigate Popolari dei Lavoratori e della Gioventù Comunista. Gente che arrivava da tutte le Nazioni della Repubblica Federale di Jugoslavia, portando con sé le proprie tradizioni, la propria cultura, le proprie abitudini alimentari.
Alla ricerca di quell’inizio, che si colloca nel 1948, percorriamo l’ultimo tratto della magistrala Kidričeva ulica, dove si trovano i ruski bloki: i “blocchi russi”, i condomini di 5 piani con 24 appartamenti che hanno costituito il primo nucleo di Nova Gorica e oggi si confondono con più recenti palazzi e villette, in un’ombrosa periferia solo a qualche centinaio di metri da trg Edvarda Kardelja. Scopriamo il più “antico” dei bloki, dove il 13 giugno 1948 fu posta la prima pietra di Nova Gorica. Scopriamo, soprattutto e con nostra sorpresa, come il verde e il tempo abbiano ammorbidito questa edilizia popolare. Ci colpisce la sostanziale dignità di questi caseggiati, abbracciati da giardini senza recinzioni e curati senza leziosità, dove in quasi ottant’anni sono cresciuti alberi dalle ampie fronde che carezzano terrazze e balconi. I bambini liberi che corrono con le loro bici e l’abbraccio della vegetazione smorzano l’impatto severo del realismo socialista che queste costruzioni dovevano ostentare negli anni Cinquanta quando il quartiere era nudo e crudo sotto il sole. Ora, a vincere, sono i mille verdi e la speciale luce calda che piove sulle case, filtrata dalle chiome degli alberi.
Poco più a est, a portata di una breve passeggiata, sono le prime propaggini del Parco di Parco di Panovec-Panovizza, un’autentica foresta che porta ossigeno alla città. Ci accontentiamo di percorrere solo l’inizio di uno dei sentieri che l’attraversano per chilometri, ma potremmo “perderci” nel bosco per ore e ore, dimenticandoci di essere a Nova Gorica e, magari, fingendoci di esplorare una delle tante selve della Slovenia, con i suoi paesaggi da grande nord.
Il Parco di Panovec ci regala latifoglie, abeti, aree palustri, momenti di fitta oscurità e radure luminose. Qualcuno corre in bicicletta, qualcun altro passeggia, come i due signori con cui scambiamo un educato “Dober dan”, come si usa da quelle parti.
Due ore dopo siamo a Gorizia, per un aperitivo vicino a piazza della Vittoria. “Non vi siete persi nella Panovizza!”, si rivolge a noi un passante, sorprendendoci con la sua simpatia. È il più giovane dei due camminatori che avevamo incrociato poco prima nel Parco di Panovec. Come noi è un italiano. Lui, proprio di Gorizia. Ci salutiamo, “Buona sera!”, come si fa da queste parti. Nostre, vostre… Queste, quelle… Italiano, friulano, sloveno… Difficile fare distinzioni quando ti trovi a Gorizia-Nova Gorica, in questa strana città vicina e distante, ma in fondo unica e unita, anche dai suoi infiniti fili verdi.